L’amore di Ghigo per Benevento

Quello tra Pier Graziano Gori e il Benevento sembrava un amore finito. La scorsa estate, infatti, il pipelet tarantino si vide costretto a lasciare il capoluogo sannita nonostante fosse stato determinante per la promozione in Serie A nelle poche occasioni in cui era stato chiamato a sostituire il titolare Alessio Cragno, impegnato con la Nazionale Under 21.  Complessivamente 9 presenze e persino un rigore parato.

Ma, come recitano i versi di una canzone di Antonello Venditti, certi amori non finiscono mai, fanno dei giri immensi e poi ritornano. E così, Ghigo (diminutivo affibbiatogli da mamma Maria Pia per distinguerlo dal padre Graziano) si appresta a tornare nuovamente nella “sua” Benevento dove del resto aveva continuato ad abitare persino quando vestiva la maglia della Salernitana. Era la stagione 2014/2015 e proprio allo stadio Arechi, con Gori che presidiava la porta granata, svanì definitivamente l’ennesimo sogno di promozione in Serie B dei giallorossi. Per l’estremo difensore pugliese fu la terza promozione in carriera, dopo quelle conquistate con il Benevento e la Nocerina.

Furono però giorni terribili per Ghigo perché vissuti con una lacerante contraddizione: da una parte la gioia di una città, Salerno, tornata nella serie cadetta dopo cinque anni vissuti nell’inferno della Lega Pro; dall’altra la delusione della città in cui viveva, ripiombata nella disperazione più cupa e abbandonata persino dal presidente Oreste Vigorito, il cui avvento aveva ridato fiducia ad un ambiente che per lungo tempo non aveva saputo scrollarsi di dosso la rassegnazione conseguente il doloroso crollo del campionato 1975/76.

Forse fu proprio quella lacerante contraddizione che lo indusse ad accettare, senza un minimo di esitazione, la proposta di tornare nella città delle Streghe formulatagli da mister Gaetano Auteri, che lo aveva già allenato a Nocera.

E la decisione di tornare a Benevento, come si sa, si rileverà una scelta felice perché all’ombra dell’Arco di Traiano ha poi conquistato da protagonista la storica doppia promozione dalla Serie C alla Serie A e saldato quella sorta di debito che sentiva di avere nei confronti della tifoseria giallorossa.

Ma nel calcio moderno i sentimenti contano poco e così la scorsa estate la società decise di dargli il benservito, probabilmente più per una questione economica che per ragioni anagrafiche (aveva da poco compiuto 37 anni). Ghigo accettò la decisione in silenzio, come sempre. E, come in tutte le storie d’amore che finiscono, a soffrirne furono soprattutto i figli, cresciuti a Benevento e costretti a trasferirsi a Taranto.

Ma certi amori, si sa, non finiscono mai, fanno dei giri immensi e poi ritornano. E lui, Ghigo Gori, ora è pronto a riprendere quella stupenda storia d’amore sbocciata nella lontana estate del 2006, quando l’Italia calcistica saliva sul tetto del mondo e alla radio spopolava il brano “Sei parte di me” degli Zero Assoluto. Ghigo in fondo è e resterà sempre una parte importante della storia calcistica della città di Benevento.

Il calcio di Johan Cruijff tra filosofia e politica

Johan Cruijff non è solo il simbolo del “calcio totale” ma anche il personaggio che ha incarnato la filosofia stessa del gioco del calcio e contribuito a cambiare il volto della società olandese.

“Lo amavo, così e semplicemente. E continuo ad amarlo perché non basta morire per non essere più amato. Johan Cruijff si è guadagnato, come un eroe antico, l’immortalità sui campi di calcio”. Esordisce così Giancristiano Desiderio nel capitolo dedicato al calciatore olandese all’interno del libro “La selva. Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta” (Rubettino).  Un testo che si propone di smascherare “l’idea più cretina di tutte: che ci sia un rifugio per ripararsi dalla Tempesta”. Il rifugio che si invoca, spiega Desiderio, è inesistente, fino a quando lo si cerca in un luogo “che non sia la nostra anima”.

E nell’anima del saggista di Sant’Agata dei Goti, tra filosofi e pensatori vari, un posto speciale è riservato proprio all’olandese volante che ha rappresentato al meglio l’essenza del calcio, ovvero il controllo e l’abbandono, “perché se non si può passare la palla non si può giocare”.

Un concetto, del resto, sottolineato più volte dallo stesso Cruijff, secondo cui “il calcio è ricevere la palla e saper passare la palla”, e ripreso da Giancristiano Desiderio: “Un grande giocatore, che sa giocare sia con la palla sia senza la palla (come Falcao), sa prima di tutto cos’è il gioco ossia la condizione nella quale si trova. In campo, nella vita. La definizione di Cruijff  ci dà non solo il calcio ma anche la vita: controllo e abbandono, ecco tutto ciò che conta. I filosofi sono impazziti per cercare una ridefinizione dell’essere che non si lasci ridurre a razionalità strumentale, ma se avessero visto giocare Cruijff e lo avessero ascoltato avrebbero ottenuto prima il loro scopo e si sarebbero divertiti come bambini che giocano a pallone”.

Ma la valenza del personaggio  Johan Cruijff  va ben oltre il calcio e gli aspetti filosofici evidenziati da Desiderio, come dimostra lo scrittore e giornalista inglese David Winner nel libro “Brillant Orange. Il genio nevrotico del calcio olandese” (Minimum Fax).  Agli inizi degli anni Sessanta, infatti, l’Olanda era tra i paesi più arretrati del vecchio continente. “Poi abbiamo vissuto una rivoluzione culturale, politica e sociale, di cui Johan Cruijff è stato il principale esponente, e siamo diventati una delle nazioni più avanzate e progressiste in Europa”, spiega il giornalista Hubert Smeets all’interno del libro di Winner.

Un po’ come John Lennon in Inghilterra, Johan Cruijff  rappresentò una sorta di modello, perché rispecchiava il modo di pensare di un’intera generazione, quella della famosa rivolta dei Provos.  “Fu il primo giocatore a capire di essere un artista e anche il primo che volle e fu in grado di collettivizzare l’arte dello sport – spiega ancora Smeets -. Rese chiaro a tutti che per ottenere qualcosa a livello sportivo si deve combinare individualismo e collettivismo. Che poi, in un certo senso, era la dottrina principale degli anni Sessanta. Tutti gli altri esageravano in un senso o nell’altro. Il collettivismo sfociò nel comunismo e in tutta quell’altra roba sinistrorsa. Molti individualisti si persero in India o in Nepal. Solo Johan Cruijff era in grado di combinare entrambe le tendenze e non ha mai smesso di farlo ”.

Era antisistema ma, paradossalmente, aveva un sistema, basato sull’individualismo creativo che, a sua volta, si inseriva in un calcio che – come sottolinea lo stesso Winner nel suo libro – era caratterizzato da una spiccata predisposizione alla democrazia, “un equilibrio perfetto tra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo”.

Insomma, Johan Cruijff è stato molto più che il simbolo del “calcio totale”. E’ stato semplicemente il calcio nella sua accezione più completa e rivoluzionaria.

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Cristian Bucchi e la strada per la felicità

Quella maledetta sera il tecnico Gian Piero Ventura l’aveva relegato in panchina, ma lui, mentre si imbarcava a Milano per rientrare a Cagliari, più che all’esclusione di Marassi pensava alla compagna Valentina che stranamente non rispondeva al telefono. Appena atterrato all’aeroporto di Elmas aveva provato nuovamente a contattarla, senza peraltro riuscirvi. Giunto a casa, s’accorse di non avere le chiavi e, dopo aver bussato inutilmente, fu costretto a chiamare i vigili del fuoco per entrare nell’appartamento di viale Poetto. In pochi istanti all’ansia subentrò la disperazione: Valentina Pilla, 24 anni, era seduta sulla poltrona ormai priva di vita. Era stata stroncata da una cardiomiopatia aritmogena, come stabilirà nei giorni successivi l’autopsia. Accanto a lei la piccola Emily.

La forza del carattere

Quella data, il 2 marzo 2003, probabilmente rappresenta uno spartiacque nella vita di Cristian Bucchi, neoallenatore del Benevento, e quello che accadde aiuta a comprendere anche l’origine della sua forza mentale. “Qualcosa in me è cambiato – spiegò un anno dopo la tragedia in un’intervista concessa a Filippo Di Chiara della Gazzetta dello Sport -. Ora sono un uomo maturo che ha affrontato diverse brutte esperienze, si è messo in discussione e ha superato i momenti brutti anche grazie agli amici. Il carattere sicuramente mi ha aiutato, come la famiglia, ma per la tragedia di Valentina ho sentito vicinissimi anche i compagni di squadra”.

Non è una caso, quindi, che Bucchi venga considerato un grande motivatore, un allenatore che prima delle partite ha l’abilità di saper toccare sempre i tasti giusti caricando a mille i giocatori con i propri discorsi.

“Dicono che abbia una gran voglia di ascoltare, di imparare e di crescere – scrisse un anno fa Alberto Trovamala sul sito GianlucaDiMarzio.com -. Maniacale, umile e disponibile. L’organizzazione e la professionalità prima di tutto. Insieme alla fame, un aspetto che ai suoi giocatori non deve mai mancare. Carattere forte, il suo. Ma altrettanto aperto verso i propri giocatori con cui dialoga quotidianamente. Ama instaurare un rapporto vero con loro. La sua arma in più però è il continuo confronto col proprio staff. Si fida ciecamente dei suoi fedelissimi”. A partire dal vice, Mirko Savini, suo compagno di squadra ai tempi del Napoli e oggi responsabile della parte tattica e dell’analisi degli avversari di turno.

All’ombra del Vesuvio

L’esperienza all’ombra del Vesuvio gli è rimasta impressa nel cuore, nonostante non sia stata particolarmente esaltante da un punto di vista del rendimento calcistico. Proprio a Napoli diede il primo bacio a Roberta Leto, che ha poi sposato nel 2009. Come ha raccontato l’ex corteggiatrice di “Uomini e donne” al sito TUTTOC.com, Bucchi la portò all’aeroporto di Napoli, dove aveva affittato un elicottero per recarsi in Costiera Amalfitana: “A Ravello mi chiese di sposarlo. Aveva prenotato un posto tutto per noi, e fece persino scendere la neve artificiale e i fuochi d’artificio, con tanto di proposta in ginocchio. E’ per questo che abbiamo nel cuore quei luoghi, lì ci siamo conosciuti e lì ci siamo sposati”.

Napoli e la Campania nel cuore, dunque. Un motivo in più per accettare al volo la proposta di allenare il Benevento formulatagli nelle scorse settimane dal presidente Oreste Vigorito in una sorta di magico incrocio di destini: sulla panchina degli Stregoni succede all’ex compagno di squadra ai tempi del Napoli, Roberto De Zerbi, che, a sua volta, il prossimo anno allenerà il Sassuolo, ovvero la squadra che lo scorso anno offrì a Bucchi la prima panchina in Serie A.

L’obiettivo

L’obiettivo dichiarato è quello di riportare il Benevento nella massima serie. Impresa peraltro riuscita due anni fa ad un altro ex calciatore del Napoli, Marco Baroni, che nei play off eliminò proprio il Perugia dei miracoli allenato da Cristian Bucchi.

Magici incroci e un altro evidente segno del destino, dunque, che il tecnico romano ha deciso di assecondare perché la strada della felicità, ancora una volta, potrebbe passare per la Campania.